L’ASTROLOGO

 INTRODUZIONE ALLO SPETTACOLO

 

Con la prima assoluta dell’ “Astrologo” , e di prima assoluta si può parlare perché se no bisognerebbe dissipare la nebbia di molti secoli, il Piccolo Teatro di Venezia inaugura questa stagione teatrale.

Quest'anno il nostro gruppo si presenta con un ben preciso programma e un ideale estetico ormai del tutto chiarificato. Abbiamo perciò sentito il bisogno, prima di affrontare il giudizio del pubblico, di riunirci in un sereno studio preparatorio dei massimi problemi teatrali - psicotecnica, ortofonia, dizione, mimo - che ci consentisse da un lato lo sviluppo delle qualità innate dell'attore, e dall'altro, il possesso di quei mezzi tecnici senza i quali si cade fatalmente nel dilettantismo dell'improvvisazione, piaga del Teatro Italiano che inutilmente Bragaglia ha tentato di elevare a sistema. Io vi assicuro che nella nostra scuola c'è almeno altrettanta serietà che in quello ufficialmente riconosciuto, e la qualifica di dilettante l'accetto soltanto se si vuole indicare con essa il dato di fatto materiale di una assoluta mancanza di guadagno; che in caso contrario la rigetto proprio sulla massima parte di coloro che dal teatro ricavano i mezzi per vivere. Ed è evidente che qui non parlo di singoli attori, ma dell'intero spettacolo, che in fondo è il solo a contare, e di cui abbiamo avuto avvilenti esempi, in confronto alla serietà degli stranieri, anche nell'ultima Biennale di Venezia.

So bene che la nostra preparazione è lungi dall'essere ultimata, e anzi, terminata la serie di questi spettacoli, riprenderemo umilmente lo studio, ma penso sia già sufficiente a realizzare, sia pur grosso modo e sperando nella benevola simpatia del pubblico, quel nucleo estetico che ci permetta di definirci come "gruppo", con un nostro tono riconoscibile.

Non starò ad annoiarvi con i nostri ideali estetici, perché conosco perfettamente l'inutilità dei manifesti e so che un'opera d'arte raggiunta, o perlomeno vitale nel suo nucleo centrale, si chiarifica da sé. Dirò piuttosto le ragioni della nostra scelta di un'opera così poco conosciuta, e intanto per incidenza dovrò accennare anche ai criteri con cui è stata messa in scena.

Prima di tutto tengo ad affermare che per me il testo non è mai stato un pretesto, e perciò la sua scelta è stata a lungo studiata. Anche i più fanatici sostenitori della regia dovrebbero riconoscere che nel complesso dello spettacolo il testo è per lo meno "un" elemento - e per me senz'altro il principale, in quanto ne suggerisce il la poetico. Ora violentare il testo per una narcisistica esibizione registica, significa cadere nel vuoto dell'arbitrario, negazione della poesia che, come tutti gli assoluti, vive sotto il segno della necessità.

L’ “Astrologo” del Della Porta, che fiorisce nel tempo in cui dalla serenità rinascimentale germina il fuoco d’artificio del barocco, per il suo carattere fantastico libera la fantasia del regista, pur nell’assoluto rispetto del testo, ed anzi questa fantasia tassativamente richiede in consonanza alla sua.

E’ naturale che in tale clima il gesto  non possa essere quello borghese del teatro intimista o verista. Ma ciò non vuol dire che noi abbiamo l’intenzione di imitare i francesi che del gesto mimato sono ora i più significativi rappresentanti, dopo averlo ereditato del resto dalla Commedia dell’Arte Italiana. Poiché, a mia conoscenza, non esiste una categoria estetica dei “salti”, sarà bene precisare, a scanso di equivoci.

Il Teatro francese dell’ “ésprit de finesse” di Jouvet, si indirizza ormai con necessaria parabola, verso “l’ésprit de geometrie” di Barrault. La chiarezza intellettuale è sempre stata alla base di tutta l’arte fancese ed era fatale che anche il teatro arrivasse ad un gioco bidimensionale, che richiama le aeree costruzione del pittore cubista Braque.

Pur tenendo conto delle innegabili conquiste della scuola francese nel gesto, e ripromettendomi del resto di tener altrettanto conto nella mia scuola di quelle tedesche nell’impostazione della voce, io non intendo affatto essere uno spaesato epigono del citato “éspit de geometrie”. Il fantastico dell’ “Astrologo” trova costantemente il suo limite nel sanguigno dell’umano, spezzando dal gioco intellettuale del servo Cricca, all’impeto poetico dell’ Astrologo Albumazar, al comico – tragico del vecchio Pandolfo e del suo fattore Vignarolo.

Proprio il tono tragico di questi due personaggi e specialmente del vecchio, io ho tenuto a sottolineare, e di ciò spero mi sia dato atto per distinguermi dalla realizzazione delle “Furberie di Scapino” di Jouvet e Barrault, in cui questo tono, che pure è evidentissimo nel testo, era necessariamente ignorato per non turbare la logicità dello spettacolo.

Per riprendere il paragone geometrico, posso affermare che il mio Astrologo è decisamente a tre dimensioni, e che pertanto ho sempre rispettato la personalità dell'attore, tendendo la mia regia ad esaltarla e non a deprimerla, e facendone anzi il ruolo centrale dello spettacolo. Spero così di attaccarmi alla più sana tradizione italiana, senza perciò rinunciare alla bacchetta del direttore d'orchestra e cadere nella confusione e nel disordine.

La messa in scena e l'allestimento di questo spettacolo è dovuto alle sole forze di Arturo Buleghin il quale, all'infuori dl Comune, che fa quanto gli è possibile, non ha alcun aiuto né materiale né moale dal Ministero competente e dalle varie Associazioni culturali veneziane che si agitano per il teatro.

Ho finito. Ora la parola è all'Astrologo, e speriamo che tutto vada bene.

 

Arnaldo Momo (1949).

 
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