LA FAMIGLIA DELL’ ANTIQUARIO
“La famiglia dell’antiquario” (1749) ha un titolo tipicamente
goldoniano: l’accento non è più sul carattere (Il Misantropo), ma
sulla società (I Rusteghi: il passaggio dell’articolo dal singolare
al plurale è indicativo).
Di qui nasce la pianta dello spettacolo: che evidenzia i rapporti fra i
personaggi mettendo in primo piano la famiglia con i luoghi
(relativamente) deputati dell’antiquario, della suocera, della
nuora, personaggi tipici di una situazione tipica (realismo).
L’antiquario con la sua mania non è un simbolo esistenziale (teatro
religioso) né un caso clinico (naturalismo) ma è figura di una
classe al suo tramonto, della fuga dalla realtà di chi è ormai fuori
dal tempo. Così “la suocera e la nuora”, sottotitolo della commedia,
non rappresentano solo un conflitto esistenziale, ma il contrasto
tra due classi: nobiltà e borghesia. Controprova: si immagini che la
suocera sia la borghese e la nuora sia la nobile: il senso della
commedia ne sarebbe del tutto svisato: vecchia deve essere la
rappresentante della nobiltà, giovane la rappresentante della
borghesia.
Goldoni non si limita a rappresentare il Mondo, ma lo giudica in nome di una
filosofia (borghese, ma del Settecento), e proprio perché Goldoni
giudica il Mondo, noi a nostra volta nel rappresentarlo dobbiamo
giudicare Goldoni.
Il personaggio positivo per Goldoni è il ‘buon mercante’ Pantalone:
Pantalone ha ragione perché è nella realtà – i soldi -; ma la sua
‘bontà’ è ristretta nei limiti modesti della famiglia (“no gh’ho
altro che sta putta”): ne risulta una frattura fra gli affari e la
morale. Senza preoccuparsi troppo dell’unità del personaggio
l’attore deve perciò indicare - giudicare – questi limiti che
esploderanno poi come contraddizione del ‘buon borghese’. E dato che
Pantalone viene anche a contatto con le maschere, dovrà tener
presente un terzo piano (critica letteraria e sociale insieme):
quello della Commedia dell’Arte. Questo tipo di recitazione,
legittimo almeno nelle opere minori di Goldoni, tiene presente – per
metafora – la lezione di Stanislawski e di Brecht; l’ho chiamato
‘cubista’ perché vuole evidenziare di volta in volta un aspetto del
personaggio nelle diverse situazioni, subordinandone la coerenza di
natura alla condizione sociale. Così la disperata volontà di
giovinezza della ‘suocera’ è figura del tramonto di tutto un Mondo;
e la flemma della ‘nuora’ è la manifestazione della sicurezza che
danno i soldi: Doralice è soltanto epidermide, non conosce l’amore
né per il padre, né per il marito; ma, ancora, la sua frigidità non
è un caso personale e clinico, ma la figura di una condizione
sociale.
E’ chiaro che l’interpretazione ‘cardiaca’ della pur nobile tradizione
Ottocentesca che ci ha dato l’immagine del ‘buon papà’ Goldoni non
può oggi soddisfarci compiutamente (ma bisogna tenerne conto, e come!).
Credo di essere stato il primo ad usare l’aggettivo ‘crudele’ per Goldoni
(1957, Atti del Convegno Internazionale di Studi goldoniani),
proprio in polemica con la troppo familiare tradizione. Oggi la
crudeltà è di moda; ma nel tentativo di ammodernare (!) Goldoni, si
rischia di prendere la strada sbagliata. Un esempio: la “Locandiera”
di Missiroli sceglie la via della crudeltà esistenziale, sostituendo
un ‘Ottocento’ con un altro ‘Ottocento’ . La ‘crudeltà’ di Goldoni
non è esistenziale, ma filosofica: restituirlo criticamente al suo
secolo (non parlo di impossibili ricostruzioni archeologiche) è
l’unico modo per non tradirlo. Per questo la recitazione dei miei
attori, tutt’altro che intimista e psicologica, ma critica e
filosofica, può apparire più ‘antica’ di quella sfumata o violenta
(ma non c’è sostanziale differenza) dell’immedesimazione. Dovrebbe
essere una recitazione ‘recitata’, classica e, spero, insieme
moderna.
Arnaldo Momo