L’AUGELLINO BELVERDE
NOTE CRITICHE
Rappresentata per la prima volta il 19 gennaio 1765 dalla comagnia Sacchi al Teatro Sant’Angelo, “L’Augellino Belverde” è la più famosa e complessa delle favole teatrali di Carlo Gozzi: “la più audace che sia uscita dal mio calamaio”. La storia, intrisa di incantesimi, trasformazioni e prodigi di ogni genere, rappresenta la continuazione degli “spropositati avvenimenti” descritti nella prima opera teatrale del fondatore dell’Accademia dei Granelleschi: “L’Amore delle tre Melarance” (1761). La trama, complicata, si basa su elementi tipici del “racconto delle nonne a’ lor nipotini”: la vana e maligna Regina madre che manda a morte i figli della giovane Regina e fa’ seppellire quest’ultima sotto “il bucco della scaffa” finché il re è lontano per la guerra: il Ministro pietoso (Pantalone) che salva i piccoli; le prove magiche (cui partecipa – contro volontà- Arlecchino); i riconosciment, la punizione dei colpevoli che verranno trasformati chi in asino e chi in tartaruga, le nozze dei riconosciuti principi Renzo e Barbarina con un ex-statua e con un ex-Augello, eccetera, eccetera. “L’Augellino Belverde”, oltre a essere fiaba teatrale è, come lo definisce l’autore stesso, “fiaba filosofica”. A quest’opera, infatti, Gozzi affida “con insidiosa facezia morale” la sua polemica anti illuminista; ne scaturisce un pamphlet il cui assunto decisamente reazionario si scontra con la struttura filosofica della fiaba che ricorda, nel suo procedere e ne gusto esotico dell’ambientazione, proprio quella letteratura illuminista considerata da Gozzi il principale dei mali della società. Un’altra feconda contraddizione sorge tra la dichiarata volontà dell’autore di restituire al Teatro sia la vecchia Commedia dell’Arte che il gusto secentesco della stupefacente “macchina teatrale”, e l’originalità del risultato che, unendo le tradizionali Maschere alle fantasie fiabesche, ha di fatto creato una nuova forma teatrale che sarà fonte di ispirazione per i romantici e modello per le sperimentazioni del teatro d’avanguardia. Nella sua riduzione Arnaldo Momo ha scritto le parti delle maschere (nel testo semplici canovacci affidati all’improvvisazione degli attori) in contrappunto all’ampollosità dei personaggi gozziani. Il regista può reintrodurre così nello spettacolo con le stesse armi di Gozzi “esro comico, ironia e satira” – la poetica del nemico Goldoni. Il realismo comico, che qui assume vesti brechtiane, diventa il reagente in grado di dar nuova vita e senso alla vis polemica della commedia. Curiosamente il Nemico rientra proprio dal versante (la Commedia dell’Arte) che avrebbe dovuto segnare la vittoria del Teatro inteso come “ricinto di passatempo” contro lo sciatto teatro di borghesi del signor Goldoni. Una sorta di rivincita del Teatro che, nella sua espressione più pura, usa la sua vis comica per reclamare uno spazio assai più ampio di quello del “ricinto” in cui doveva essere confinato. Ne risulta uno spettacolo che, pur rispettando il testo ed esaltando gli spazi della dimensione favolistica fino ad utilizzare - oltre al normale palcoscenico – il teatro dei burattini, si nutre del complesso della ricchissima tradizione teatrale veneziana e ne fa propri anche gli influssi del teatro europeo, utilizzando con discrezione gli insegnamenti dell’avanguardia. Un punto a “sfavore” di Gozzi: la statua Calmon, deus ex machina e portavoce dell’autore, ha perduto, oltre al naso, anche la testa.
Fabio Momo
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